Conversazione con Gabriele Vacis e Roberto Tarasco

Lunedì, 3 Giugno, 2019 - 11:28

MARIA DOLORES PESCE (dramma.it) | Gabriele Vacis è stato uno dei protagonisti della stagione di rinnovamento teatrale degli anni 80, caratterizzata da una rivisitazione del teatro di narrazione che si impone all'attenzione per un utilizzo creativo e drammaturgico del racconto, che non è solo una “storia” ma diventa una “esperienza” che va oltre, alla ricerca di senso. È la stagione de “Laboratorio Teatro Settimo” a Settimo Torinese che lo vede protagonista insieme, tra gli altri a Laura Curino e Roberto Tarasco. Singolare e interessante, anche per la sua formazione, l'attenzione agli spazi della rappresentazione da cui nascono allestimenti coinvolgenti. È noto al grande pubblico, anche televisivo, per l'elaborazione con Marco Paolini del “Racconto del Vajont”. Regista e drammaturgo poliedrico ha diretto anche numerosi allestimenti operistici. Oggi oltre a lavorare con lo stabile di Torino, di cui è direttore della scuola di recitazione, è fondatore dell'Istituto di Pratiche Teatrali per la cura della persona. Roberto Tarasco,

che ha condiviso con Gabriele Vacis già le iniziali esperienze teatrali, è regista, scenografo ed esperto musicale ma si definisce soprattutto “scenofono” per la sua capacità di creare uno specifico spazio sonoro che va oltre la stessa scenografia. Collabora stabilmente con le messe in scena di Vacis ed è, dal 2007, consulente artistico del Teatro regionale Alessandrino per il quale ha curato diversi allestimenti.
Incontro Gabriele Vacis a Genova ove sta tenendo un laboratorio per gli studenti universitari nell'ambito di “STARE”, progetto di formazione condotto insieme, appunto, a Roberto Tarasco.

MDP: In cosa consiste in sintesi questo progetto che avete curato su incarico del direttore del rinato Centro teatrale universitario Roberto Cuppone che coinvolge diverse facoltà dell'Ateneo genovese? 

GV: Infatti ci sono partecipanti di Architettura e anche di altri corsi di studio. Abbiamo cominciato a lavorare quattro giorni a Febbraio, replicando altri quattro giorni ad Aprile e ora con questa ultima settimana concludiamo il nostro percorso. È un laboratorio che coinvolge una ventina di studenti, alcuni già con precedenti esperienze. Il lavoro che facciamo è un lavoro sulla consapevolezza, sulla 'presenza', a partire dalle modalità dell'Istituto di Pratiche teatrali per la cura delle persone, cioè a partire da quelle pratiche teatrali che hanno come riferimento e finalità la persona e la sua cura. Queste pratiche sono il frutto di quello che abbiamo imparato dai grandi maestri del novecento, in particolare l'attenzione per il teatro oltre lo spettacolo. Perciò quello che serve, all'interno di queste pratiche teatrali sono quegli esercizi, quei movimenti, che  addestrano ad essere presenti, ad essere presenti a sé e agli altri, presenti al tempo ed allo spazio, ad essere cioè “consapevoli'. Infatti gli attori in scena, secondo me, hanno soprattutto la necessità di essere presenti a sé stessi. Pensando alle cose che gli attori italiani si aspettano quando entrano in scena, io penso infatti che l'essere presenti a sé stessi sia, tra queste, più nobile o comunque più interessante. Non lavoriamo dunque soltanto sull'aspetto mimetico del teatro. Tutte le esperienze di teatro di inclusione, di teatro sociale utilizzano elementi mimetici. Si parte dalla scena di Amleto che per vendicare il padre utilizza il teatro. Quindi nel teatro di inclusione si servono di queste esperienze per far emergere qualità e caratteristiche di chi è chiamato a partecipare. Non seguiamo pertanto solo i principi e le pratiche dell'altro da sé, quale quella, ad esempio, di immedesimarsi nella madre così da scoprire se la amo o la odio. Sono pratiche queste ultime nobilissime e rispettabilissime, però noi preferiamo lavorare su qualcosa che porti come detto appunto alla consapevolezza di sé. La mia formazione in effetti se da una parte è grotowskiana, dall'altra parte deriva dall'essere cresciuto nelle periferie torinesi oggetto del decentramento teatrale negli anni 70, dal teatro dell'Angolo a Giuliano Scabia. Quindi quello che facciamo nell'Istituto di pratiche teatrali è appunto l'esito di questa duplice esperienza. Lavoriamo infatti sulla “Schiera”, una pratica e insieme uno strumento che abbiamo costruito negli anni e che consiste nel camminare e respirare insieme, con gli altri. Si tratta in sostanza di capire il movimento del camminare, il primo che compiamo, e da lì prendere coscienza del respirare che lo accompagna. Poi percepire la voce ovviamente, la sua modulazione e la sua gestione, in quanto la recitazione parte dall'emissione vocale, dal suono, per arrivare poi alla parola e al canto. Abbiamo  utilizzato per questo laboratorio il testo di Marcel Schwob “La Crociata dei bambini”, perché in bilico tra la narrazione e la poesia. Così si tratta alla fine di stare in equilibrio tra il senso e il suono. Un camminare in ascolto, ascoltando gli altri e ascoltando sé stessi. Lavoriamo poi per scarico della tensione, non per accumulo, utilizzando soltanto i muscoli che sono strettamente necessari, quindi quando ci sono le condizioni che portano alla violenza di una azione, tutto questo avviene per progressivo impegno di muscoli che per tutto il resto del tempo sono scarichi. Partire dallo scarico anziché dal carico è molto importante perché, nella nostra esperienza, abbiamo sempre ragazzi che non considerano più l'essere presenti, cosa che a noi insegnavano con l'appello già dalle elementari quando rispondere 'presente' significava dover essere effettivamente presenti. Adesso non è più previsto e, per di più, le nuove tecnologie ci portano spesso altrove ed in un altro tempo, per cui è l'idea di recuperare l'essere presenti, lì e ora, quello che fonda il seminario e tutto quello che stiamo facendo. Quindi innanzitutto cerchiamo di scaricare le tensioni. A Torino, nel nostro lavoro nelle scuole sia del centro che delle periferie più lontane, incontriamo spesso ragazzini che sono sotto 'tiro', che sono continuamente in competizione e la cui più grande paura è quella di essere 'fuori', di essere cacciati come nei talent's televisivi. Noi non facciamo esami o selezioni e questo mette i ragazzi in uno stato d'animo ed in una disposizione totalmente diversi.

MDP: Lavorare in questo modo, per sottrazione e allentamento della tensione e della competizione è certamente interessante e anche in un certo senso un po' controtendenza. Lei però dirige anche la scuola dello Stabile di Torino nella quale si troverà di fronte a ragazzi già più pronti e consapevoli. Cosa cambia rispetto all'approccio del progetto 'STARE'?

GV: Va detto che rispetto alla competizione e alla ansia relativa non cambia moltissimo, perché per la Scuola di recitazione abbiamo ricevuto circa 580 domande e abbiamo dovuto selezionarne solo 22. Per quanto riguarda il progetto qui a Genova, invece, non abbiamo selezionato nessuno, sono venuti quelli che volevano venire, alcuni con esperienze precedenti, altri senza. Alla scuola del teatro stabile in effetti viene chi vuole diventare un attore, ma le tensioni, le rigidità, le paure, soprattutto le paure, sono simili. Ma in questi ultimi c'è una volontà, e sarà perché li ho selezionati io per quello, una volontà forte che va oltre la vanità. Ma sia con gli uni che con gli altri io lavoro molto sul fatto che parlino “con” i propri interlocutori, il pubblico, non “ai propri” interlocutori. Anche in questi giorni a Genova, con una ragazza con precedenti esperienze di teatro, ho voluto lavorare contro questa unidirezionalità della recitazione, per la quale l'attore parla ad un interlocutore, ad un pubblico in sala che non vede. Ma questa modalità ormai non è più attuale, o meglio non è più coerente con l'oggi ove viviamo, come ha detto Papa Francesco, non un'epoca di cambiamenti ma un cambiamento di epoca. Per cui, seppure il teatro è anche questo, cioè un parlare ed un ascoltare, la diffusione dei moderni mezzi di comunicazione fa diventare un'urgenza l'esigenza che da tempo sentivo di superare la “quarta parete”. D'altra parte è una esigenza che ritrovo anche nei ragazzi i quali chiedono di vivere l'esperienza del teatro come una esperienza coinvolgente, coinvolgente come su internet che è un vero e proprio 'ambiente'. Noi infatti non stiamo più facendo il teatro ai tempi del cinema, come Grotowski, noi stiamo facendo il teatro ai tempi di internet e questo impone un mutamento. È tutto un altro mondo e quando incontro i ragazzi, nelle scuole o anche all'Università Cattolica ove insegno, chiedo spesso se frequentano il cinema o il teatro, e la risposta è quasi sempre che il cinema ormai lo vedono scaricando sul computer, quasi nessuno va più in sala con continuità.

MDP: Per il teatro quale lei lo ha definito fin qui si usa il termine di “teatro sociale”, termine verso il quale sono molto diffidente, come riguardo a tutte le classificazioni che semplificano, perdendo la complessità. Talché spesso si equivoca e si sovrappone la percezione di un teatro altro, un teatro del disagio, un teatro della disabilità, della esclusione, addirittura di un teatro minore mentre a mio avviso si tratta di teatro e basta, perché chi calca il palcoscenico, nel momento in cui lo fa, è un attore a tutti gli effetti. Lei, che ha e ha sempre avuto, anche per la sua formazione, una grande attenzione alla Polis come destinazione e come luogo di condivisione del teatro, cosa pensa al riguardo?

GV: In effetti ormai il teatro sembra quasi un passepartout utile ad ogni bisogna. Si fa teatro nelle scuole e  nelle strade, si fa addirittura teatro nelle aziende per addestrare i manager. Le faccio un esempio, noi abbiamo fatto il “Serse” di Händel un' opera barocca, ed in scena mentre la protagonista cantava la sua aria  abbiamo pensato ad introdurre un ragazzo down che attraversava il palcoscenico spingendo un enorme pallone nero mentre la cantante, alla fine della scena, interagiva brevemente con lui. Daniele, il ragazzo in scena, era l'unico che poteva fare quella scena perché aveva quel particolare rapporto con gli oggetti. Lo abbiamo scoperto lavorando in un centro per disabili, lì abbiamo conosciuto Daniele e lo abbiamo guardato stupiti per un'ora. È stata una esperienza meravigliosa durante la quale ho capito cosa vuol dire “diversamente abile”, non un termine politically correct, ma l'espressione del fatto che quella cosa lì, in teatro, solo Daniele poteva farla. Quando siamo andati in scena lui stesso ha detto, quasi domandandolo a me, di essere stato bravo. È questo dunque che diventa dirimente: la consapevolezza. Quando un attore va in scena, , che sia abile o disabile, che sia nero che sia verde, deve essere presente a sé stesso. Quello che va colto è il suo livello di consapevolezza, dopo di che tutte le etichette sono sporadiche. Quando si fanno dei lavori con dei non professionisti, anche se molto professionali, lo spettacolo è una possibilità non una necessità; quello che veramente è importante, quello che veramente mi interessa è il percorso, anche senza lo spettacolo. Però non c'è contrapposizione tra le due cose. L'anno scorso abbiamo lavorato con sei classi di scuole superiori che è sfociato in uno spettacolo poi in cartellone al Teatro Stabile di Torino. Tra quelle sei classi c'era una classe differente. Quello che ne è nato è stato uno spettacolo, bello o brutto che sia stato giudicato, in cui si mescolavano professionisti e ragazzi e in cui ogni sera era invitato un giornalista diverso per l'introduzione, ciascuno con un libro diverso. Dunque anche tutto questo che è teatro dell'inclusione, o come vogliamo chiamarlo, secondo me ha bisogno di 'arte' e dunque non va lasciato agli educatori o ai medici, che pure fanno un lavoro straordinario, ma comunque un lavoro diverso ed ognuno va lasciato al suo proprio mestiere. Così come mi è utile stare con i ragazzi della scuola, ero sabato con loro, ragazzi che sono dei veri campioni, molto bravi e motivati, altrettanto mi è utile stare, qui a Genova, con questi ragazzi che sono studenti e vivono il laboratorio come 'una' delle esperienze della loro vita.

MDP: A proposito del laboratorio vorrei chiederle come avete lavorato sulla drammaturgia  e perché avete scelto  il testo di un simbolista francese,  Marcel Schwob?

GV: Innanzitutto “La crociata dei bambini” è una sorta di pretesto, perché non mettiamo in scena il testo, è un pretesto e l'abbiamo scelto in quanto è una specie di poesia narrativa. Cioè c'è questo esprimersi della musicalità del suono, prima ancora del senso. Quando, poi, proponiamo il passo dei bambini annegati nel Mediterraneo non abbiamo bisogno, oggi, di spiegare nulla perché quell'accadimento nella sua essenzialità, oltre le singolarità storiche, era un problema nell'ottocento di Schob, era un problema nel tredicesimo secolo, ed è un problema oggi. Quindi è una narrazione che richiama molto al tempo presente, al qui e ora.

MD: Avete condiviso, ed estendo la domanda anche a Roberto Tarasco, l'elaborazione del testo con i ragazzi che lo recitano, almeno nella scelta e nel montaggio?

GV: Il testo è quello e noi l'abbiamo proposto così. Con i ragazzi abbiamo però condiviso la sua elaborazione individuando assieme la sua drammaturgia, le modalità del suo essere detto in scena. Quando ad esempio c'è il racconto dei tre bambini ci sono riferimenti esterni alla narrazione, che nella nostra versione non sono riportati, così come abbiamo evitato riferimenti interni tra l'una e l'altra di queste otto testimonianze, di questi otto punti di vista, perché abbiamo pensato che ciascuno dovesse essere autonomo. Tutto questo l'abbiamo fatto insieme a loro e ovviamente abbiamo dovuto restringere molto la narrazione di riferimento.

RT: Insieme a questo abbiamo fatto un lavoro parallelo sulle loro storie, su quanto delle loro storie potesse trovare spazio nelle parole di quel racconto, e anche se poi le parole delle loro storie non sono state inserite, è stato questo un lavoro molto importante per la coerenza complessiva.

MDP: Quindi Sabato prossimo potremo vedere all'Albergo dei Poveri, il frutto di questa condivisione di storie e di esperienze?

RT: Sì ed è stato molto interessante lavorare in quegli spazi molto belli. È una esperienza che abbiamo vissuto in altre tappe di questo nostro progetto, come ad esempio a Padova, perché ci sembra importante anche uscire dai Teatri e ridefinire spazi così diversi.
GV: Questo è stato importante per noi ma anche per i ragazzi. Ad esempio molti dei ragazzi con cui ho lavorato a Torino non avevano mai messo piede al Carignano che pure è il cuore di Torino.

MDP: Vorrei fare ora una domanda che non riguarda tanto quello che state facendo a Genova, ma più in generale il vostro ruolo e il vostro lavoro. Che peso e funzione può avere oggi la pedagogia nella espressione drammaturgica?

GV: E' una cosa che riguarda anche il cinema non solo il Teatro. Garrone, alla premiazione per il David di Donatello ha avuto modo di dire che gli schermi che abbiamo in casa diventano sempre più grandi mentre quelli del cinema diventano sempre più piccoli. Così per il teatro, per il quale gli spazi sui giornali o sui libri si riducono costantemente, ma non solo quelli, anche gli spazi fisici, concreti diminuiscono. Io ho avuto modo di lavorare in spazi 'altri' ove però sussiste sempre una sorta di tramestio di fondo. Per quanto riguarda la pedagogia ho avuto e ho modo di lavorare sia con gli attori che con le scuole, e le pratiche, e parlerei di pratiche piuttosto che di pedagogia, sono in qualche modo sovrapponibili e importanti se vanno a cogliere elementi significativi, uno dei quali è la realtà. Io ho l'impressione che viviamo in tempi caratterizzati da una sorta di sospensione della realtà. Il teatro invece, costituzionalmente e inevitabilmente riporta, ci riporta, alla realtà. Riporta dunque alla concretezza e alla presenza perché se io in teatro pronuncio una parola, quella parola deve essere concreta,deve essere fisica.

RT: Al riguardo, a mio parere, nel teatro oggi ci vuole una certa dose di coraggio. Prendiamo lo spettacolo tradizionale, questo incomincia e dura un'ora e mezza, due ore o altro. Si spengono le luci, ci viene chiesto di spegnere i cellulari, dunque in un certo qual modo ci si isola. Ora è proprio indispensabile tutto questo? Ad esempio nel settecento quando iniziava lo spettacolo le candele venivano accese e il loro consumarsi segnava la fine dello spettacolo. Forse si tratta oggi di recuperare anche queste diverse modalità di essere in scena.

GV: In particolare noi sabato prossimo (il 25 maggio ndr) non facciamo uno spettacolo, noi siamo lì  dalle 16 alle 20 e il pubblico potrà entrare ed uscire a suo piacimento, nel senso che noi faremo degli intervalli, ogni tre quarti d'ora, a separare i diversi segmenti di queste azioni, e in quegli intervalli si potrà appunto entrare e uscire come in una mostra. Questa libertà è una cosa che ci sta molto interessando, nel senso che tutta la nostra attività è molto dinamica e la concentrazione che talvolta richiediamo è molto alta, per cui vogliamo che il pubblico non stia lì davanti a noi passivamente. Non chiediamo ai presenti di ballare con i ragazzi, assolutamente, però richiamo loro alla stessa attenzione all'ascolto che devono avere i ragazzi. Pertanto, chi non è in grado o solo non vuole, è libero di uscire e questa libertà, come detto, ci interessa molto. Si tratta di portare alle estreme conseguenze il cuore del teatro che è :”io parlo ma mentre parlo posso ascoltare chi mi ascolta”. Questo è fondamentale: “io agisco ma mentre agisco posso vedere chi mi guarda”, così posso sentire il teatro. Certo questo accade sempre in teatro, ma con la dinamicità degli studenti che abbiamo bisogna andare oltre, e se normalmente lo spettatore nel buio della sale non è visto in quanto l'attore è abbagliato dalle luci, io credo che ci sia bisogno di qualcosa di diverso, ci sia bisogno di fare l'esperienza dell'ascolto reciproco. Io per questo ammiro gli attori per la capacità di risolvere, perché quello che distingue il grande attore è appunto, a mio avviso, la presenza.

 

Relazione Progetto

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