Paolo Cecchetto ci ha scritto questo.
Ci sembra un bel contributo al dibattito che si sta sviluppando, e che speriamo continui, nel mondo del teatro.
Perché il mondo si è riempito di fedeli che chiedevano la riapertura delle chiese, di tifosi che chiedevano la riapertura del campionato, e gli unici che chiedevano la riapertura dei teatri erano gli artisti?
Perché del teatro sentono la mancanza gli artisti e non il pubblico?
Io lo so perché. Lo so, ma non lo posso dire. Non lo posso dire perché sono circondato dalla gente più restia al cambiamento che io abbia mai visto. Gente che continua a riempire i teatri sempre delle stesse opere, trasformate e riadattate per tentare di renderle attuali con una insistenza che rasenta l'ossessione. Gente che crede che nel 2020 il teatro lo possano fare solo gli artisti e non capiscono che servono gli informatici, i medici, i consulenti della privacy e un sacco di figure che non c'entrano con l'arte ma c'entrano con la società. Perché, da un lato, è con la società che dobbiamo fare i conti e, dall'altro, è la società che ci paga i conti. Gente che non capisce che il pubblico sono i loro clienti e il teatro è un servizio e che come tale deve sottostare alle regole del mercato e che solo se sarà un servizio ricercato e desiderato, potrà essere qualcosa di più e smettere di vivere dell'elemosia della comunità. E potrà essere qualcosa di più di quello che il pubblico vuole e diventare qualcosa di cui il pubblico ha bisogno.
Gente che non capisce che vendere un servizio richiede mettersi al servizio di qualcuno e che serve bilanciare il proprio desiderio di apparire con la necessità di dare sé stessi. Gente che usa il teatro per risolvere i problemi che dovrebbe risolvere dallo psicologo e gente che si serve di persone mentalmente ed emotivamente instabili, sfruttando la loro debolezza per produrre lampi di bellezza incerta che non possono essere i pilastri su cui si fonda qualcosa. L'incertezza deve appoggiarsi su una base solida che la sostenga e la supporti e non può essere fondamenta. Gente che non capisce che, in una società che mastica quotidianamente modelli economici diversi, con la netta predominanza, nel campo dell'intrattenimento, del Try & Buy, chiedere 10-35-50 € sulla fiducia vuol dire rivolgersi ad un pubblico fuori dal tempo. Gente che apre la pagina Facebook quando il pubblico al quale vuole rivolgersi è su Tik Tok, a quattro social media di distanza in ordine cronologico. Gente che pensa che sia un loro diritto essere artisti e non si rende conto che è un privilegio che bisogna sudarsi.
Queste cose non le posso dire, perché chi dovrebbe ascoltarle non le vuole sentire, però io sogno.
Sogno un teatro che parla di maschilismo tossico e nazifemministe, di furto di immagini private dai cellulari, di videogiochi che aiutano il social distancing, di genitori single e figli di divorziati e famiglie allargate e mutevoli, di bisessuali eteroromantici e asessuali panromantici, di pandemia e della paura di una malattia che puoi prendere respirando, di guerre di hacker israeliani e dittatori coreani che forse sono morti o forse no. E sogno lo faccia come solo il teatro può fare, imparando dalle altre arti e dagli altri media, senza scimmiottarli. Sogno un teatro che ti fa pagare il biglietto dopo 20 minuti di spettacolo, se vuoi proseguire la visione.
Sogno un teatro che sa coniugare la funzione di intrattenimento con quella di formazione dell'individuo. Sogno un teatro in cui i contributi statali siano un'occasione di arrivare oltre le previsioni e non l'unica cosa che separa l'artista dal senzatetto. Sogno un teatro in cui i classici siano un evento da celebrare e non una routine. Sogno un teatro che sa uscire dal teatro senza abbandonarlo, per espandersi su YouTube, su Twitch, perfino su Tik Tok per diffondersi viralmente tra chi non sa di aver bisogno del teatro. Sogno un teatro che da valore all'esperienza della condivisione di un momento irripetibile col pubblico, che lo guarda tanto quanto si fa guardare, ma che sa che il teatro non può iniziare e finire tra due porte chiuse, in uno spazio separato tra luce e ombra e tra dentro e fuori. Sogno un teatro del quale il pubblico senta la mancanza.
Sogno un teatro in cui artisti e pubblico sono consustanziali.